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Aroma di caffè, profumo di rinascita

NaturaSi-Lazzarelle

All’interno del carcere femminile di Pozzuoli, una torrefazione  che – erede della tradizione napoletana del caffè – è un esempio di imprenditoria sociale capace di superare pregiudizi e stereotipi di genere.

Fare impresa senza lasciare indietro i più fragili, considerati spesso come l’anello debole, coinvolgendoli e anzi rendendoli protagonisti attraverso un percorso che – oltre a permettere loro di acquisire una professionalità – rappresenta anche un’importante opportunità di crescita individuale e di affermazione della propria identità. Una sfida non facile, ma possibile, come testimonia l’esperienza di Imma Carpiniello, fondatrice della Cooperativa Lazzarelle, impresa tutta al femminile con sede all’interno del carcere di Pozzuoli, tra le realtà che hanno contribuito alla realizzazione della mostra dedicata a Scampia. L’abbiamo incontrata per farci raccontare la sua esperienza capace di oltrepassare le barriere del carcere, ma anche di superare gli stereotipi di genere. 

Imma, raccontaci un po’ la tua attività.

Io sono la Presidente di una cooperativa sociale (avviata nel 2010 grazie a un fondo per start-up) che lavora all’interno del carcere femminile di Pozzuoli in maniera un po’ particolare, perché gestisce una torrefazione all’interno del carcere seguendo l’intero ciclo produttivo del caffè. 

Seguite quindi ogni fase della lavorazione?

Acquistiamo la materia prima – il chicco ancora verde – da una cooperativa che segue progetti di cooperazione internazionale e fa parte del progetto Fairtrade. Predisponiamo la nostra miscela e tostiamo il caffè alla vecchia maniera, con tostatura lenta e raffreddamento ad aria, che ci permettono di ottenere un caffè che non subisce shock termici né in entrata né in uscita, rispettando la più antica tradizione napoletana. Dopodiché, lo stocchiamo nei nostri silos, senza aggiungere nulla, e lo facciamo maturare per 10 giorni durante i quali il caffè sprigiona tutti i suoi oli e aromi. Quindi lo maciniamo, lasciandolo degassificare senza sostanze aggiunte, e lo confezioniamo in pacchetti da 250 grammi. L’intero ciclo è supervisionato dalle socie libere della cooperativa, ma viene interamente realizzato dalle detenute del carcere, regolarmente assunte perché abbiamo scelto a tutti gli effetti di fare impresa, ma di farlo in modo differente.

Una torrefazione in un carcere: come vi è venuta questa idea? 

Tra gli elementi che ci hanno portato a sviluppare una realtà di questo tipo, c’è sicuramente la mancanza di opportunità, perché spesso in carcere non hai opportunità formative né lavorative e molto spesso quello che sai lo dimentichi. Il carcere di per sé è un’istituzione totalizzante e infantilizzante. Totalizzante, perché ti prende nella tua totalità, sia da un punto di vista fisico, che sensoriale e (ovviamente) da un punto di vista psichico. Infantilizzante perché, non dovendo decidere più nulla, perdi tutte le tue capacità decisionali: è l’istituzione che decide per te. Questo è un aspetto che potrebbe sembrare sciocco, ma che incide molto sulla perdita di alcune attitudini necessarie al momento del ritorno nella vita reale. Chiudere la porta, per esempio, un gesto banale che fa parte della nostra quotidianità, in cella diventa un’eccezione perché il più delle volte c’è un agente che chiude la porta alle tue spalle. In carcere la quotidianità ti viene tolta e quando esci riabituarti a una serie di cose diventa complicato: svolgere un’attività lavorativa, che richiede una certa autonomia e il dover prendere delle decisioni nel processo produttivo, aiuta a non perdere proprio questa attitudine.

Il lavoro diventa quindi uno strumento di formazione non solo professionale, ma individuale. 

Sì, noi lavoriamo tantissimo sull’empowerment, sulla capacitazione delle donne: sono donne che vengono da contesti periferici, a bassa scolarità, molto spesso vittime di violenza fisica, psichica ed economica. È molto bello osservare la loro espressione quando chiudono il primo pacchetto di caffè: sembrano domandarti “davvero l’ho fatto io? Non pensavo di esserne capace”. Da lì parte tutto un processo di ricostruzione del sé, di ricostruzione della fiducia… 

Un tratto fondamentale anche in vista del loro futuro reintegro nella società: cosa accade dopo? 

Dopo il percorso che hanno fatto con noi, molte donne una volta libere si sono reimpiegate: per loro è stato sicuramente più facile non avere alle spalle un lungo periodo di inattività causato dalla detenzione. Due anni fa, abbiamo aperto anche un bistrot all’interno del quale le donne che lavorano con noi in torrefazione vengono a lavorare quando riescono ad accedere ai benefici di legge che consentono loro di lavorare all’esterno. In questo modo, il distacco è meno repentino: vengono da noi per le misure alternative e seguiamo il loro reinserimento in società passo dopo passo, fino al termine della pena. Molto spesso restiamo in contatto anche dopo fornendo per esempio referenze che possono servire loro per trovare un nuovo impiego, grazie anche al sistema di rete con cui ci interfacciamo. Il problema è che, nonostante sia bello fare il nostro caffè a Napoli, ci confrontiamo sempre con un mercato del lavoro molto sclerotizzato, poco dinamico in cui le opportunità lavorative sono minori per tutti quanti, non soltanto per le detenute. È una criticità che talvolta ti porta in carcere, e che ritrovi quando esci dal carcere, e che riguarda i ragazzi a rischio dispersione  scolastica così come i neolaureati o le donne over 50. 

Ma come mai proprio il caffè? 

C’è sicuramente una ragione territoriale, che si lega a una tradizione che qui è molto radicata: siamo a Napoli, vuoi non fare il caffè?! Inoltre, spesso il percorso del chicco di caffè non è così pulito: è un mercato, non di rado nelle mani di grandi aziende, caratterizzato dallo sfruttamento nei confronti dei lavoratori e della terra. Quindi, l’idea di farlo tutto in chiaro (dalla coltivazione al confezionamento) è diventata per noi un elemento caratteristico  e caratterizzante. 

Inoltre, quello del caffè è un settore fortemente maschile, mentre voi siete tutte donne… 

Sì, quando abbiamo iniziato, il mastro torrefattore che ci ha spiegato i segreti del mestiere ci ha detto: “esiste il torrefattore, non la torrefattrice. La torrefattrice è la macchina, il torrefattore colui che produce il caffè”. Questo ci ha portato a interrogarci sul fatto che molto spesso negli istituti al femminile si tende a procedere per stereotipi, relegando per esempio la donna a compiti di pulizia o di cucina. Questo avviene anche per gli uomini, ma forse per le donne è più radicato. È vero che le donne con cui lavoriamo sono donne a bassa scolarità, che arrivano da contesti difficili e marginali, ma sono donne capaci alle quali andava data tutta la dignità di un mestiere e non di uno stereotipo. 

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