Rocco Soldini, Simone Pella e Alessandro Cassinadri, nel 2009, erano tre ragazzi di appena diciotto anni quando decisero di intraprendere un’impresa memorabile: raggiungere Capo Nord in bicicletta. Li abbiamo incontrati, dopo più di 10 anni, per farci raccontare un’avventura che ancora riecheggia nelle loro vite.
Il desiderio di tutti e tre era di viaggiare per scoprire coi nostri occhi cosa c’è lì fuori. Il dove e il come erano, in realtà, dettagli secondari. Nella primavera del 2008 sfruttammo il ponte del 25 aprile per andare a Basilea in bici. Tirammo fuori dalle nostre cantine due vecchie bici da corsa dei nostri genitori: pesantissimi telai in acciaio, cambio al telaio e rapporti lunghissimi. Gonfiammo le gomme, acquistammo delle borse da viaggio e partimmo. Considerando il livello estremo di improvvisazione e disorganizzazione, fu l’impresa più epica che abbiamo fatto. Ma la cosa più illuminante fu scoprire che in bici, con pazienza e perseveranza, si poteva arrivare ovunque, percorrendo con le proprie gambe ogni singolo chilometro per arrivare alla meta.
Fin dall’invenzione di questo mezzo, la bicicletta si è sempre associata alle imprese di uomini straordinari: le prime edizioni del Giro d’Italia avevano tappe che sfioravano i 400 km, con tempi di percorrenza di 14 ore su strade scalcinate e con bici senza cambi! Penso che la bici abbia qualcosa di molto vicino alla meccanica umana, potremmo addirittura arrivare a dire che è la perfetta soluzione tecnologica per il bisogno innato dell’essere umano di muoversi, poiché massimizza lo sforzo traducendolo in chilometri. Da un punto di vista più “pratico” per noi si è trattata di una scelta automatica, visto che ogni giorno ci spostavamo per Milano in bicicletta: non inquina, non disturba, permette di arrivare ovunque… ed è più economica di qualsiasi altro mezzo.
Nell’estate pedalammo da Amsterdam a Milano. Alla partenza eravamo in sei: disorganizzati e con aspettative diverse. Ogni giorno c’erano molti imprevisti (uno si fece rubare la bici, uno partì solo con canottiere e shorts e in pochi giorni si ammalò) e facevamo sempre molta meno strada di quella che ci eravamo prefissati. Però, alla fine, noi tre riuscimmo ad arrivare fino a Milano. Così a settembre, iniziammo a fantasticare su qualche impresa più grande. Passammo i nove mesi successivi a organizzare il viaggio (un grande incentivo per terminare l’anno scolastico con la sufficienza!). Un negozio di biciclette ci ha fatto da sponsor tecnico, fornendoci molte dritte sul tipo di bici da utilizzare e su quali materiali usare. Abbiamo consultato un esperto medico sul tema dell’alimentazione e del pronto soccorso e abbiamo svolto le necessarie pratiche burocratiche per entrare in paesi quali la Russia e la Bielorussia. Durante quell’anno abbiamo inoltre svolto sparuti allenamenti per abituarci alle tappe di lunga distanza, molti chilometri e salite alpine. Le tappe erano state tutte stabilite, tuttavia dal viaggio precedente avevamo anche imparato che non si può fare troppo affidamento sulla tabella di marcia. L’imprevisto è sempre dietro l’angolo e serve molta flessibilità. Ci eravamo prefissati di fare in media 100 km al giorno. E ogni 10-15 giorni avevamo preventivato un giorno di riposo.
Il percorso, stabilito con mesi di anticipo, era questo: in Italia siamo passati dal lago di Como, dalla Valtellina e dal Passo dello Stelvio. Siamo quindi entrati nella regione austriaca del Voralberg, abbiamo attraversato la Baviera (sotto la pioggia) e Monaco e siamo entrati in Repubblica Ceca in una giornata nebbiosa. Da Praga dove – come da accordi – due componenti del viaggio sono rientrati a casa – abbiamo continuato il viaggio in tre, proseguendo attraverso la Polonia, fino al confine con la Bielorussia. Accumulato qualche giorno di ritardo che ci ha creato problemi con il visto bielorusso, ci siamo trovati di fronte a una scelta: accorciare il percorso prendendo un treno fino alla Lituania oppure insistere verso la Bielorussia con un nuovo visto. Abbiamo deciso di dirigerci con il treno in Lituania, tagliando il nord della Polonia, e da lì abbiamo attraversato i paesi baltici facendo anche tappe di 150 km. Siamo entrati in Russia e abbiamo circumnavigato il golfo di San Pietroburgo in soli 3 giorni, fino ad arrivare in Finlandia in un giorno di violenta pioggia, ma rispettando pienamente i termini del visto. Abbiamo attraversato tutta la Finlandia da sud a nord, abituandoci al suo paesaggio di foreste immense, laghi e maledette zanzare. Siamo arrivati in Norvegia e in Lapponia, dove gli arbusti si sono fatti sempre più radi fino a scomparire e a lasciarci in un paesaggio che sembrava un deserto freddo abitato da renne; il mare di Barents e i fiordi norvegesi sono stati gli ultimi paesaggi che abbiamo visto in quel viaggio.
Una signora in Germania ci regalò un sacco di patate, dei ragazzi estoni ci offrirono delle birre, un contadino lettone ci fece stare nella sua fattoria e ci offrì uova e latte, un convoglio nuziale in Russia ci ha raggiunto lungo la strada, fermandosi per brindare con noi e per offrirci caramelle e merendine. Abbiamo incontrato anche altri ciclisti, che sono tantissimi, ma nella quotidianità delle nostre vite non si notano. Incontrammo un dottore Basco in bici, che l’anno prima aveva attraversato la Groenlandia con gli sci da fondo. Un ragazzo di Hong Kong che da mesi girava il nord Europa in autostop. Un ragazzo tedesco in giro in bici da un anno senza nessuna meta precisa. Due idraulici polacchi che pedalavano giorno e notte per raggiungere la Norvegia, perché avevano solo due settimane a disposizione.
La forza, quella forza che è dentro ognuno di noi e che ci permette di andare avanti e raggiungere un obiettivo, anche se sembra molto lontano: la semplicità con cui è possibile sopravvivere, la gioia di farsi una doccia, di mangiare un panino o dormire all’asciutto. Quando arrivammo a Capo Nord, in una giornata di nebbia con la visuale ridotta a 2 metri, tutti e tre eravamo stanchi e un po’ delusi di essere arrivati in una giornata tanto nebbiosa. La vera felicità e il reale apprezzamento del risultato ottenuto arrivò nei giorni seguenti, quando il tempo migliorò e si poté osservare la distesa di acqua che si apre davanti alla scogliera di Capo Nord, uno spettacolo difficile da descrivere a parole. Quando riusciamo a compiere qualcosa di grande, l’aspettativa è sempre quella di un’esultanza da gol alla finale dei mondiali. In realtà, dopo un percorso così lungo (che sia un viaggio, una tesi di laurea o un progetto di lavoro), concludere l’ultima tappa sembra solo “fare il proprio dovere” e anzi, dopo la gratificante soddisfazione di avercela fatta, alla faccia dei numerosi scettici, è facile ritrovarsi tristi o spaesati in mancanza di un nuovo grande obiettivo da raggiungere.
Sono passati 13 anni da quel viaggio, ma l’averlo fatto ci dà forza ogni giorno: pensare di essere riusciti a completare quell’impresa infonde fiducia in noi stessi nei momenti di scoramento. Di un viaggio del genere rimane l’apprezzamento profondo delle cose più semplici (il famoso segreto per la felicità?). Le cose più belle (e due anni di pandemia ci dovrebbero aver aiutato a capirlo) stanno nel piacere di stare insieme, incontrare gente e fantasticare su nuove avventure. Inoltre, avere la fortuna di vedere con i propri occhi ci arricchisce immensamente e ci allontana dalla semplicistica visione che le cose sono bianche o nere, con i buoni da una parte e i cattivi dall’altra: il mondo là fuori non è mai come ci viene dipinto.