Emblema di una mobilità più sostenibile, la bicicletta è lo strumento per una rivoluzione non solo ambientale, ma anche sociale, economica e culturale. Abbiamo esplorato questo argomento, ricco di sfaccettature, con Federico Del Prete, Presidente di Legambici, area di Legambiente con base a Milano dedicata alla mobilità ciclistica, partendo dalle origini della bicicletta: un mezzo di trasporto antico, che guarda al futuro.
La bicicletta ha avuto origine in un momento di crisi ambientale fortissima, legata a una serie di importanti eruzioni vulcaniche nel sud est asiatico, culminate con quella del vulcano Tambora nel 1816: imponente ed esplosiva, proiettò nell’atmosfera una quantità di ceneri e lapilli tale da produrre il cosiddetto “anno senza estate”. Tra il 1816 e il 1817 vi fu pertanto l’ultima grande crisi di sopravvivenza del mondo occidentale: gran parte dell’emisfero nord fu oscurato e, in mancanza della luce del sole, si persero tutti i raccolti. Le persone non avevano da mangiare, gli animali morivano e da questa catastrofe, della quale sappiamo ancora molto poco, un intelligente aristocratico tedesco, Karl Drais, immaginò come liberare le persone dalla dipendenza da animali da traino. Il risultato fu ciò che lui chiamò la “macchina da corsa”, l’attuale bicicletta, in principio senza pedali. Dunque, sin dalle sue origini – oltre 200 anni fa – la bicicletta è legata ai cambiamenti climatici che in quel caso furono causati da eventi naturali, ma destinati in seguito ad aumentare a causa della componente antropica, ovvero quello che noi abbiamo provocato all’atmosfera in termini di emissioni climalteranti.
Esatto. Tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, la bicicletta – nella forma in cui la conosciamo oggi – esplose come mezzo per la mobilità individuale: possederla era uno status symbol. Si veniva considerati adulti se si utilizzava la bicicletta per gli spostamenti quotidiani e in seguito diventò anche il mezzo principale dell’emancipazione femminile, utilizzato da suffragette e attiviste. Il fatto che le donne abbiano abbandonato corsetti e indumenti costrittivi lo dobbiamo anche a una maggiore comodità nella pedalata. Successivamente – prima negli Stati Uniti e poi in Europa – è arrivata la motorizzazione di massa e l’automobile è diventata il nuovo status symbol. A quel punto, la bicicletta in età adulta iniziò a essere stigmatizzata, confinandola all’universo infantile: un’esperienza ristretta ai primi anni di vita, connessa ai primi piccoli incidenti e soprattutto all’affermazione della propria autostima. In seguito, si è perso anche questo aspetto, tanto che oggi il tasso di non abilità nell’uso della bicicletta tra gli alunni delle classi scolastiche può superare il 15%. Oltre all’incidenza importante di sovrappeso e obesità, si perde così anche la percezione del territorio, considerato altro da sé anziché ritenerlo parte della propria vita e della propria esperienza di cittadino.
La bicicletta dà gioia, è una macchina della felicità: un mezzo lento con un’elevata capacità di penetrazione nel territorio, che permette di apprezzarne la ricchezza culturale e naturalistica. Un viaggio di questo tipo porta dunque con sé una diversa consapevolezza del paesaggio, della propria capacità di muoversi al suo interno e di comprenderlo. È una vacanza che vale doppio perché stimola la capacità delle persone di riposarsi, di ricaricare le batterie, di essere soddisfatte al momento del ritorno a casa. E non dev’essere per forza qualcosa di leggendario: si può anche pensare di fare una passeggiata di 20 km al giorno e scoprire che in un raggio di 300/400 km da casa ci sono cose mai viste né conosciute. Questo fa molto bene all’economia…
Noi di Legambiente l’abbiamo raccontato molto bene con i dati di ISNART/Unioncamere, puntuali e sorprendenti, sull’economia del cicloturismo. Chi viaggia in bicicletta è anche chiamato “Credit Card Tourist”, poiché per necessità vengono portate con sé poche cose e si tende ad acquistare tutto il resto lungo il percorso. Questo fa bene all’economia ma anche ai territori, perché tutto quello che non spendiamo in carburanti o in costi autostradali possiamo spenderlo sul territorio più autentico, gustandone bellezze e delizie. Sempre in una prospettiva economica, inoltre, l’Italia è da sempre tra i primi paesi per export di biciclette in Europa e, a livello di fatturato, in questo momento la cosiddetta bike economy fa più dell’export del vino: se il vino è una chance – e lo è – perché non investire sempre di più sulla bicicletta?
Quando parliamo di mobilità sostenibile le infrastrutture sono importanti, ma è importante anche la determinazione per ridisegnare e riprogettare lo spazio pubblico. Dovremmo iniziare a rivedere il concetto di mobilità sostenibile: noi siamo abituati a pensare che mobilità sostenibile sia cambiare motore a un’automobile, invece probabilmente è restituire alle persone la libertà di scelta su quale veicolo usare per i propri spostamenti.
Il concetto della biodiversità vale anche nello spazio pubblico: se un ecosistema prospera quante più specie vi albergano, perché sono sinergiche e simbiotiche tra loro – e questo rappresenta un’idea di salute e di benessere dell’ecosistema – lo stesso vale per lo spazio pubblico, soprattutto nelle città: troppe automobili impoveriscono la mobilità.
Milano vuole porsi come leader nelle politiche di mobilità sostenibile, e lo fa: infatti, è l’unica tra le 14 città metropolitane del nostro Paese in cui la motorizzazione privata scende. Tuttavia, finché questo fenomeno non sarà esteso anche a tutte le altre città metropolitane avremo grandi problemi. In tal senso, le città medio piccole vanno molto bene; per esempio, Pesaro è un caso di studio internazionale perché c’è la famosa “bicipolitana”, chiamata così perché associa la bicicletta al trasporto pubblico, ovvero 98 km di piste ciclabili estese, diffuse e connesse. Attribuisci un nome alle linee - linea 1, linea 2 - fai le fermate, poni una grafica accattivante e, in due anni, una città passa dal 4 al 20% di ciclabilità: questo ci fa capire come anche la comunicazione sia importante.
I dati del Tom Tom Traffic Index ci dicono come in seguito alla pandemia il traffico sia aumentato del 20%: l’utenza che prima utilizzava il trasporto collettivo e in condivisione è stato riassorbito molto dall’automobile privata. D’altro canto, però, il Covid ha dato una spinta alla mobilità attiva e alla ciclabilità, che nelle maggiori città italiane è aumentata anche grazie allo smart working. Molte città del mondo hanno scelto di compensare il crollo del trasporto pubblico con reti ciclabili di emergenza; in Italia siamo stati meno pronti, perché abbiamo realizzato in velocità itinerari già previsti e ciò non è la stessa cosa. Quindi, dal mio punto di vista con la pandemia abbiamo perso un treno: molte città hanno deciso di affrontare in maniera radicale e determinata questa emergenza.
Come per esempio Parigi, che ha aperto tutta la città alle biciclette, trasformando le corsie preferenziali dei bus in piste ciclabili, con delineatori e segnaletica da cantiere, prima provvisori e poi permanenti. È una strategia che funziona e che ha funzionato anche nei Paesi Bassi negli anni Settanta: l’Olanda aveva un traffico spaventoso e morivano 10 bambini al giorno investiti dalle automobili, abituati com’erano a giocare in strada. Proprio il movimento “fermiamo la strage dei bambini” (Stop de Kindermoord) ha dato il via a quella che noi conosciamo oggi come “l’Olanda ciclabile”. Mica sono nati in bicicletta. Anzi, dicevano: non siamo come gli italiani, sempre in bicicletta e all’aperto. A proposito di pregiudizio…