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Risolvere problemi costruendo nuove soluzioni

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Condividere conoscenze per creare nuove competenze nei Paesi del sud del mondo è la missione di Lorenzo Giorgi,  che ci ha raccontato un modo diverso di fare impresa.

Ribaltare lo status quo dell’imprenditoria, per dimostrare che si può generare impatto sociale anche senza essere una società benefit: è questo l’obiettivo di Lorenzo Giorgi, fondatore – insieme ad altri due soci, Giacomo Battaini e Giorgio Giorgi – di Glocal Impact Network, centro di progettazione e laboratorio di design per lo sviluppo, che lavora per portare, ma soprattutto per condividere conoscenza nei Paesi del sud del mondo. 

Come avete iniziato? 

Durante la mia esperienza con la Cooperazione internazionale in Tanzania, nel 2008 e nel 2009, mi sono reso conto di quanto forte poteva essere l’impatto che ognuno di noi avrebbe potuto avere se avesse messo a disposizione degli altri il proprio sapere, creando dei network capaci di trasferire innovazione e conoscenza. Lì è scattata la prima molla, anche se ho scelto di non continuare in quest’ambito. Poi io e Giacomo, mio compagno di studi universitari, tra il 2014 e il 2015, abbiamo conosciuto Liter of Light, un progetto internazionale dedicato all’energia, che insegna alle persone, specialmente nel sud del mondo, come autocostruirsi sistemi di illuminazione o di accesso energetico: dai lampioni per le strada alle luci per la casa, fino a quelle portatili. I paletti sono molto rigidi: tutte le tecnologie devono essere open source, dunque con brevetto aperto; devono essere impiegate solo persone del posto e utilizzati solamente materiali locali. Abbiamo quindi aperto la sede italiana, dirigiamo la sede europea e coordiniamo il continente africano; nei nostri 21 uffici, grazie ai quali operiamo in 30 Paesi, lavorano solo persone nate o comunque residenti in quei Paesi. In seguito, nel 2017, abbiamo dato vita a un altro progetto che si dedicava all’agricoltura. L’obiettivo era lo stesso che avevamo per l’energia: strutturare prototipi e diffonderli nel mondo a pari livello: open source, materiali locali, condivisione di conoscenze. Abbiamo brevettato 3 prodotti, che sono già presenti in 4 Paesi africani. Nel 2019 è arrivato un ulteriore progetto sull’architettura modulare, cioè su come costruire moduli in architettura per agevolare la condizione di crescita delle città e situazioni di comfort importanti. Ed è a questo punto che è nato Glocal Impact Network, che riunisce tutti i nostri obiettivi e ci permette di connettere impatto sociale e tecnologia. 

In quali ambiti lavorate e con quali servizi? 

Lavoriamo in tre ambiti: energia, agricoltura e digital, con l’obiettivo di unire l’analogico e il digitale in maniera sostenibile, offrendo principalmente tre macroservizi. Abbiamo un’unità dedicata al Brand Activism, in cui aiutiamo le aziende a diventare “brand attiviste”, mettendo a punto strategie e accompagnandole nella comunicazione, non tanto nell’aspetto tecnicamente comunicativo o del linguaggio, ma invitandole a comunicare ciò che effettivamente si è fatto e non quello che si vorrebbe essere. Le si aiuta, inoltre, a fare diffusione di stakeholder(portavoce e promotore di uno specifico tema, ndr) e stakeholder engagement sui temi della sostenibilità. Lavoriamo poi con ONG ed enti del terzo settore, attraverso bandi nei quali mettiamo a servizio la nostra tecnologia e conoscenza per diffondere tecnologia e conoscenza nel mondo. Un terzo servizio riguarda invece l’educazione e la formazione: stiamo progettando un insieme di strumenti per la progettazione sistemica, open source, che sarà una metodologia da sviluppare  negli anni e nei continenti per arrivare a progettare in maniera sistemica e generare impatto sociale. 

Tutto ha avuto inizio dalla luce… 

La luce e, più in generale, l’accesso energetico, è per noi un tema fondamentale: arrivare in Paesi che non hanno mai avuto l’illuminazione e riuscire a portare la luce, in maniera meccanica e in modo sostenibile, è un qualcosa di impattante, non solo sulla vita delle persone, ma anche a livello emotivo. Ed è proprio questo il nostro obiettivo: riuscire a insegnare alle persone come autocostruirsi sistemi energetici. In uno dei nostri progetti, per esempio, avevamo un circuito costruito  a mano che andava saldato e richiedeva, dunque, l’accesso alla rete elettrica, non disponibile nelle zone rurali. Perciò siamo riusciti a realizzare un circuito da costruire solo a livello meccanico, unendo componenti elettroniche e avvitandole in un sistema di morsettiere. Non serviva un saldatore, bastava avvitare. Questo ci ha permesso di portare la tecnologia nelle zone più rurali, più lontane, mentre prima ci dovevamo fermare alle cittadine che avevano la luce. Per fare ciò, abbiamo riportato i nostri designer e i nostri ingegneri –abituati a lavorare a un livello High Tech importante – in completo low tech per trovare soluzioni. Abbiamo anche oltrepassato la logica dell’autocostruzione, rivolgendo una particolare attenzione alle “case di santè”, le case rurali della sanità, con l’obiettivo di renderle indipendenti a livello energetico, perché ci eravamo accorti che quei piccolissimi ospedali, che offrivano soprattutto servizio di maternità, lo facevano disconnessi dall’energia, non avendo a disposizione abbastanza fondi. Ovviamente in questi contesti l’energia vuol dire qualità della sanità, anche dal punto di vista igienico-sanitario: le donne partorivano con le luci dei cellulari. Grazie a una campagna per l’illuminazione degli ospedali, abbiamo portato la luce in 3 piccole cliniche, contribuendo così al miglioramento della sanità nelle zone rurali.

Alla base della vostra attività c’è una condivisione  di conoscenze che diventa condivisione  di competenze sul territorio... 

La missione del nostro progetto è condividere conoscenza e saperi. Mi sento in dovere di andare in altri Paesi e creare la condizione per trasferire conoscenza, che verrà utilizzata come vorranno loro. Non porto un prodotto, ma la conoscenza: come si possono risolvere i problemi, costruendo nuove soluzioni. Per fare questo, lavoriamo in team estremamente diversificati, mettendo insieme competenze molto trasversali, composti da antropologi, ingegneri, designer. Abbiamo iniziato e tutt’ora lavoriamo con università e centri di ricerca, con ricercatori che sposano i nostri progetti open source, aspetto fondamentale che ho sempre cercato di difendere: l’open source non è contrario al business, assolutamente, perché l’approccio open source permette di avere una forza progettuale maggiore. Bisogna essere certi di essere open source non solo nei prodotti ma anche nel processo: non basta produrre una cosa e dire “ok, la puoi usare” se poi è stata prodotta in modo inquinante, senza includere la società, senza consentire a chi la utilizza di sviluppare maggiori abilità cognitive. Se con le comunità si riesce, nel lungo tempo, a costruire delle connessioni e delle relazioni forti a livello di fiducia professionale hai degli alleati sul territorio, che ti aiutano a entrare nelle comunità stesse. Ciò significa creare degli ascensori sociali di competenza locali che  mi permetteranno di portare a terra il progetto.

Potremmo dire che trasformate il mercato (e anche la società)?

Ci proviamo: a volte il mercato vince, a volte vinciamo noi. È una sfida. Noi abbiamo scelto di fondare questa società per mostrare che il mercato tradizionale, il business lineare, non è e non sarà una soluzione. Si tratta di riuscire a rendere il mercato trasversale, più dinamico e più in linea anche con gli andamenti sociali del mondo, capace di adattarsi ai suoi cambiamenti.  

Per restare fedeli ai propri ideali di partenza occorre essere estremamente plastici e plasmarsi sul mondo circostante: per questo, quando facciamo consulenze alle aziende sul Brand Activism, ci piace ripetere che è meglio avere un ideale piccolo, ma interiorizzato a tal punto  da conservarlo per sempre, utilizzandolo come bussola per il cambiamento.

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