Car sharing, bike sharing, coworking sono termini che ormai siamo abituati a conoscere: espressioni che rimandano a una forma di consumo basata non sul possedere ma sul condividere. Passa infatti attraverso la condivisione una nuova concezione dell’economia fondata sulla relazione, con implicazioni sociali, etiche e ambientali. Stiamo parlando di sharing economy, al centro della nostra chiacchierata con Francesca Forno, sociologa dell’Università di Trento.
È un’economia di condivisione, che si fonda sulla collaborazione delle persone e non sull’intermediazione e sullo scambio del denaro. Proprio per questo può considerarsi riparativa di una società che si basa sull’individualismo e che ha perso la capacità di fare insieme, fare in comune. Oggi la maggior parte delle cose di cui abbiamo bisogno si acquista sul mercato, che è penetrato in noi al punto da avere mercificato la nostra vita quotidiana, con conseguente progressiva perdita delle cosiddette skills, ossia della capacità di fare da sé, difficile poi da recuperare.
Possiamo individuare 4 fasi. All’inizio degli anni Duemila, vi erano pratiche di condivisione off line, non digitali, nate come reazione di recupero delle relazioni tra le persone all’interno della società, ma anche tra le persone e le cose, perché il più delle volte, quando si acquistava un oggetto, se ne sapeva poco. La seconda fase è subentrata quando tutte queste forme di condivisione si sono rafforzate e diffuse anche grazie al web, con un’espansione fortissima. Inizialmente queste piattaforme venivano viste in modo molto favorevole, perché erano un plus che rendeva molto più facile la condivisione e attirava anche le nuove generazioni. Finché però, nella terza fase, questa forma di sharing economy è stata ripresa nei gangli della massificazione tipica della concezione capitalistica, cosicché le piattaforme digitali, cogliendo l’affare, hanno determinato una mercificazione con relazione al ribasso del valore sociale di queste azioni. Basti pensare allo sfruttamento dei fattorini che consegnano le merci a domicilio oppure al fenomeno delle black kitchen, in cui non è dato sapere dove vengono preparati i pasti poi consegnati a casa o al lato oscuro di alcune piattaforme che, proponendo soggiorni brevi a basso costo, hanno reso proibitivi gli affitti nelle città. Nella quarta fase, che è la nostra, assistiamo alla nascita di piattaforme digitali caratterizzate da un sistema di cooperazione: alla sharing economy di mercato, al capitalismo di piattaforma, si sta opponendo una sharing economy fondata sul cooperativismo, sulla cooperazione di piattaforma con soggetti auto-organizzati.
Le piattaforme digitali possono essere molto importanti per la diffusione dell’economia di condivisione, ma lo sono quando supportano le relazioni senza sostituirsi a esse. Alcuni dicono che la tecnologia non è mai neutra e sono d’accordo con questo: quando c’è un’innovazione tecnologica, questa determina per forza di cose un cambiamento, ma sta a noi scegliere in che modo utilizzarla. Indubbiamente le nuove tecnologie aprono nuove possibilità, come ad esempio il mantenimento delle relazioni durante la pandemia, ma è anche vero che il cambia-mento determinato è talmente forte da rendere difficile ora tornare indietro. Si tratta semmai di trovare delle soluzioni alternative che però non ci privino dei vantaggi, sociali e ambientali, cui la tecnologia ci ha abituati.
In realtà sì, penso ci siano molti punti in comune tra questi fenomeni di sharing economy e le cooperative del passato. Quando si diffondono le cooperative, alla fine dell’Ottocento, siamo in un periodo di grandi cambiamenti: con la produzione di massa e il capitalismo, si rompono i legami tradizionali e molte persone – passando dalla campagna alla città – vivono in condizioni di isolamento. Le relazioni tra le persone, però, sono importanti perché ci permettono di intraprendere azioni collettive. Quindi, a cosa sono servite le Cooperative? Erano delle forme di auto-organizzazione, ovvero conte-sti socio-economici in cui si creavano relazioni sociali e in cui veniva resa possibile anche una diversa interpretazione del mondo. In un momento in cui i lavoratori venivano sfruttati, non avevano diritti né orari di lavoro né stipendi adeguati, la forma cooperativa ha dato risposta a queste domande: “Perché io devo lavorare per altri? O comprare da altri? Uniamoci e produciamoci quello che consumiamo”. Quindi sono stati gli stessi lavoratori che hanno trovato una soluzione creativa, instaurando un modello economico diffuso che ha riequilibrato le disuguaglianze. Il cooperativismo è stato alla base dello sviluppo del sistema di welfare state, di servizi collettivi, ma anche delle lotte per i diritti – perché le cooperative sono anche scuole di democrazia, di agire insieme – finalizzate all’introduzione della scuola , dell’istruzione e della sanità pubbliche.
Dal bike sharing fino alla condivisione degli attrezzi o della lavatrice, in uno stesso condominio, nel nostro Paese tutte queste esperienze sono però ancora considerate delle buone pratiche e non l’ordinaria normalità…
Da noi sono esperienze ancora poco sviluppate rispetto ad altri contesti europei, anche perché non se ne coglie l’importanza di tipo sociale e ambientale, prima ancora che economica. Se ne parla sempre come buone notizie, ma in realtà sarebbe importante parlarne come parte della quotidianità, come avviene per esempio nei paesi nord europei. Se si va in Olanda, in Danimarca o in tutti quei posti in cui il bike sharing e il car sharing sono fenomeni diffusi, si comprende che è possibile effettuare consumi più sostenibili. Certo ci vogliono sistemi di gestione e somministrazione del territorio che facilitino l’adozione di certi comportamenti. La sostenibilità è possibile se c’è un impegno collettivo che parte da chi il territorio lo governa: le nostre istituzioni – anche a livello comunale – dovrebbero creare infrastrutture che rendano il consumo sostenibile più facile.
Per il futuro dobbiamo impegnarci. Dobbiamo prendere coscienza dell’urgenza del tema ambientale e sociale, dobbiamo renderci conto che le disuguaglianze stanno aumentando e che stiamo deteriorando l’ambiente. Le soluzioni ci sono ma le azioni devono essere sostenute non solo dalle innovazioni tecnologiche ma anche da quelle legislative e politiche: ci vuole l’azione dei cittadini, ci vuole l’innovazione tecnologica e ci vuole chi amministra e progetta la città valorizzando l’economia di condivisione. Dobbiamo capire l’urgenza e capire che abbiamo bisogno di unire le forze, consapevoli che quando si lavora per il futuro non solo personale ma di tutti, si recupera anche il senso della propria vita.