Carissimi lettori, parto dal presupposto che l’ecosistema al quale si rivolge questa rubrica sia prevalentemente composto da individui che si fanno delle domande e che non afferrano precipitosamente la prima risposta che passa o che viene suggerita da venti costanti monoculturali. L’anno scolastico si è da poco concluso e la maggior parte degli insegnanti (in Italia circa 700.000 in totale) si è trovata alle prese con il documento di valutazione. La percezione che emerge dai giovani è chiara: non vogliono meno scuola, ma un luogo frequentato da adulti che si pongano l’obiettivo di prepararli a leggere il mondo, e non addestrarli per superare delle performance quali ‘test di iniziazione’ per l’ingresso nella vita sociale e professionale, rischiando di esigere ‘troppo’: troppe cose, troppo presto e troppo veloce.
La domanda di fondo poggia sulla rappresentazione individuale sul “cosa significa educare” che poi diviene per l’educatore il fondamento strutturale del suo agire… riempire un secchio vuoto o accendere un fuoco? (William Butler Yeats). Per poter orientare pensieri e sentimenti propedeutici all’agire pedagogico, come in tutte le attività umane, necessita un paradigma pieno di senso, che tenga conto di elementi purtroppo non sempre presenti alla coscienza. Il Cosa? trascina con sé i programmi delle singole discipline; il Quando? le tappe evolutive dell’essere umano in crescita in relazione all’acquisizione di un progressivo sviluppo della sua coscienza; il Come? l’atteggiamento interiore con cui approcciare le giovani generazioni, tenendo conto che non tutti imparano allo stesso modo; il Perché?, la chiarezza del motivo di fondo del fare scuola e per questo dovrebbe esservi la responsabilità di individuare, oltre alle eterne mete insite nell’evoluzione personale, in che direzione soffia il vento dello spirito del tempo.
Su questo ultimo punto che implica il ‘finalismo del fare scuola’ è necessario soffermarsi: dal panorama storico e geopolitico vanno ricercati gli epicentri del nuovo corso, dal riconoscere le cause che generano le maggiori tensioni sociali e politiche emergono le nuove mete del fare scuola, prima fra tutte lo sviluppo della cultura del dialogo, e questo i giovani non lo possono apprendere semplicemente dallo studio, bensì attraverso la viva esperienza personale di avere davanti a loro adulti che lo testimoniano con lo sforzo quotidiano di migliorarsi. Sì, lo sforzo: non è la competenza già presente nell’educatore che muove il motore evolutivo dei giovani, quanto da parte loro, lo sperimentare vivente dello sforzo quotidiano di migliorarsi oltre a ciò che già si è. Questo vale per tutti i settori della vita, tutti. Questa è la tensione sempre più evidente che si crea tra Individuo e Società, fin nel suo embrione più piccolo eppur rappresentativo del fenomeno: la famiglia.
Per poter incontrare un altro individuo, è necessario fare appello a capacità relazionali. Noi oggi sappiamo, perché lo sperimentiamo, quanto questa capacità sia di importanza capitale nel corso della vita personale e professionale. Facciamo già molto se volgiamo la nostra attenzione ad educare ed istruire in modo da impulsare e far crescere una ‘cultura del dialogo, del pensare in cerchio’, non solo per risolvere situazioni conflittuali, ma anche per creare qualcosa che l’individuo da solo non può. Dunque tante cose, tantissime se si tiene conto delle innumerevoli variabili che oggi più di ieri si inseriscono nella biografia di ogni singola anima umana. Soffermarsi a riflettere su questi quattro pilastri dell’edificio culturale ‘scuola’ con la massima onestà interiore possibile, come insegnanti/educatori è un dovere morale che acquista un valore esponenziale se viene proiettato nella consapevolezza che agli insegnanti il destino offre un dono tanto unico ed irripetibile, quanto prezioso: incontrare oggi il futuro.
Unire a questo la consapevolezza che siamo tutti educatori, genitori, parenti, passanti, cassiere al supermercato, politici, autisti, allenatori, tutti, tutti gli adulti che lo sguardo dei bambini incontrano, che le orecchie ascoltano, in ogni luogo, in ogni istante della giornata, consapevoli o meno, siamo educatori. I bambini ci guardano, i giovani adolescenti ci osservano più profondamente alla ricerca di coerenze tra ciò che predichiamo e ciò che facciamo. Non ci scrivono un documento di valutazione, ma ci valutano, ci hanno scelti con un’aspettativa inconscia che in una certa misura va onorata. Herbert Hahn, uno dei primi insegnanti della scuola Waldorf di Stoccarda nata nel 1919, declinò così il binomio educazione ed azione morale: ‘E quando nella vita l’adulto si trova nella condizione di fare una scelta che implica la dimensione morale, ciò che verrà in aiuto sarà l’impulso che colmava il cuore e la mente dei suoi educatori.’ Questo è parte del rischio educativo, sempre presente, fin nelle pieghe del quotidiano scolastico, correggere ed incoraggiare, due gesti archetipici dell’educatore, l’uno senza l’altro perde in efficacia e senso, si può applicare anche nella stesura di un documento di valutazione immaginandolo strumento educativo e non solo burocratica relazione di profitti, rendimenti, crediti e debiti, termini che rimandano in altre stanze, altri luoghi che avrebbero sì bisogno di essere arieggiate…