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Agronomo per formazione, viaggiatore per vocazione

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Agroecologia e Antropocene al centro della nostra chiacchierata con Riccardo Pavesi, agronomo viaggiatore e cooperante internazionale

Agronomo giramondo, Riccardo Pavesi viaggia nelle zone del mondo più vulnerabili per diffondere un approccio agroecologico. Perché solo una prospettiva che integri l’aspetto ambientale con quello sociale, economico e culturale può trasformare l’intera filiera del cibo.

Lo abbiamo intervistato per parlare con lui di agroecologia (ma anche di Antropocene).

Riccardo, cosa si intende per agroecologia?

Anziché di una pratica specifica, parliamo di approccio agroecologico alla gestione del territorio, che comprende sia un utilizzo sostenibile delle risorse, ma anche la formazione di un tessuto sociale comunitario coeso, resiliente a eventuali difficoltà. Include l’agricoltura ecologica in varie forme – la permacoltura, il biologico, il biodinamico, l’agricoltura tradizionale contadina – ma considera anche aspetti socio-economici, come la CSA (Community Supported Agriculture) o, più in generale, la creazione di reti che possano aiutare i piccoli produttori. L’agroecologia crede molto nella multifunzionalità dell’agricoltura, e sostiene una ricerca scientifica partecipativa per una conoscenza interdisciplinare.

Un ultimo aspetto importante è il movimento sociale: il fare rete non solo con il territorio di riferimento, ma anche con altri territori che adottano un approccio di questo tipo. Ed è proprio ciò di cui abbiamo bisogno per trasformare il sistema agroalimentare e renderlo più sostenibile.

Sei specializzato in contesti fragili: qual è stato il tuo percorso?

Ufficialmente sono un agronomo, più ufficiosamente un avventuriero. Ciò mi ha spinto a cercare un ambito internazionale in cui lavorare, concentrandomi sul supporto ai contesti più vulnerabili, per il loro sviluppo anche – ma non solo – in relazione al tema del cambiamento climatico, al fine di renderli più resilienti, meno vulnerabili. Per fare ciò – anche attraverso la cooperazione – ho integrato le mie competenze agricole con un’analisi geopolitica e sociopolitica del contesto internazionale postcolonialista, in particolare di Africa e Centro America.

Cosa ti spinge a viaggiare? Come mai  hai scelto il Messico come prima meta?

Viaggiare mi ha dato alcune risposte che cercavo già durante il mio percorso in scienze agrarie a Milano, facoltà in cui si parla poco di biologico e di agroecologia. Proprio questa carenza mi ha spinto a fare ricerca lontano, per la mia tesi. In Messico il tema dell’agroecologia è particolarmente radicato: soprattutto nella zona meridionale del Paese, il particolare contesto culturale – legato alla tradizione indigena e in generale alla cultura contadina – e paesaggistico – un ambiente tropicale, con elevata biodiversità – insieme al fatto che si tratta di una zona non del tutto sviluppata, ha fatto  sì che fosse un terreno fertile per lo sviluppo di questo tipo di approccio. Lì ho acquisito un bagaglio di conoscenze che ancora oggi porto con me nei progetti di cooperazione.

Come quello in Mali, dedicato proprio al sistema agroforestale?

Sì, esatto. Dopo la laurea mi sono specializzato in sistemi agroforestali, studiando come adattarli ad alcuni progetti in Africa. Per la prima volta sono riuscito a realizzarli in Mali nell’ambito del programma agricolo della Onlus Abareka Nandree, finalizzato alla coltivazione e vendita di ortaggi per ridurre l’esodo rurale, problematica presente in migliaia di villaggi africani, accentuata dai cambiamenti climatici e dalle dinamiche economiche di land grabbing (accaparramento delle terre, nei paesi in via di sviluppo, senza il consenso degli abitanti, ndr) e sfruttamento. Abbiamo previsto una formazione per la gestione dell’attività agricola con approccio agroecologico e ho proposto di adottare anche un sistema agroforestale, con colture orticole e alberi  per la produzione di frutta. E ha funzionato!

Quali sono gli effetti del cambiamento climatico nelle aree più fragili?

Un po’ genericamente, si tratta di realtà in minor parte responsabili, ma in maggior parte vulnerabili, perché vivono in contesti aridi, con un clima difficile, e non hanno i mezzi, le conoscenze e la capacità per rispondere alla variabilità che i cambiamenti climatici portano con sé. Attraverso l’approccio agroecologico si cerca di renderle più resilienti. Per esempio, collaboro con una ONG locale nel nord della Sierra Leone: una regione, isolata e remota, già economicamente svantaggiata, in cui la guerra civile prima e i focolai d’ebola e di Covid poi, hanno esasperato le condizioni di insicurezza alimentare. Lì le comunità, concentrate su un’agricoltura di sussistenza, praticano il classico metodo dello “slash-and-burn", taglio e rogo degli alberi per rendere il campo disponibile per l’agricoltura; dopo qualche anno la produzione del campo cala e si apre un’altra area e si ricomincia… Così facendo, in un circolo vizioso, nel corso degli anni gli abitanti hanno deforestato tutta l’area, ridotto la capacità dell’ambiente circostante di mitigare gli effetti del cambiamento climatico e ancora non hanno soddisfatto il bisogno di terra da coltivare né migliorato la sicurezza alimentare: si tratta di trasmettere conoscenze, approcci e strumenti innovativi che permettano di integrare l’agricoltura con l’ambiente,  per rispondere efficacemente anche alle necessità socio-economiche. Oltre a riforestare, le pratiche di agroforestry permettono infatti di produrre cibo rigenerando il suolo.

Infine, Antropocene: di cosa parliamo?

La definizione di Antropocene fu coniata all’inizio del 2000 dal chimico Paul Crutzen, colui che ha spiegato il buco nell’ozono: partendo da questa scoperta, ha indicato la nostra capacità di essere forza geologica capace di modificare i flussi biogeochimici della terra, un po’ come i vulcani e i cianobatteri (batteri che hanno permesso l’accumulo di ossigeno sul pianeta, consentendo lo sviluppo della vita, ndr). Questo viene considerato come una sorta di segnatempo per l’inizio  di una nuova epoca. Qui si apre il dibattito: quando siamo diventati forza geologica? C’è chi dice dall’inizio dell’agricoltura, chi dalla rivoluzione industriale, chi ancora dal dopoguerra con l'inizio della globalizzazione... Un primo processo di questo tipo avvenne nel Neolitico, quando nella pianura padana lo sviluppo delle prime civiltà dedite all’agricoltura causò il disboscamento dell’area, con aumento della CO2 a livello locale. A ciò seguì un aumento delle temperature che, seppur lieve, causò un’enorme siccità. Tutto questo, però, accadde a livello locale e le conseguenze non sfociarono altrove, come invece accade oggi a noi che stiamo modificando le condizioni della vita sulla terra in modo irreversibile.

Ascolta Riccardo Pavesi anche su Laboratorio 2050, il podcast di NaturaSì.

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